Bonotto: la fabbrica lenta dialoga con l'arte
The Lifestyle Journal: Diary of Slow Living

di Marco Magalini
06 luglio 2015
Un manifesto contro la standardizzazione industriale e la produzione in serie a basso costo. “A un certo punto ho iniziato a comprare solo macchine vecchie – racconta a Tlj Giovanni Bonotto – e chi me le vendeva pensava lo facessimo perché non avevamo soldi per comprarne altre. Invece io non compravo macchine vecchie, ma una fabbrica lenta che mi regalava “know-how”.

Bonotto è una manifattura tessile fondata nel 1912 da Luigi Bonotto, la cui gestione familiare è ora arrivata alla sua quarta generazione. Andando in azienda – un’esperienza unica che ci fa capire l’importanza della manifattura – ci si rende conto che oggi è un’industria verticale a ciclo completo, punto di riferimento internazionale nel campo della moda e del design per la ricerca e la nascita dei trend, in cui lavorano 200 maestri artigiani.
Nonostante la produzione annuale sia di oltre 3 milioni di metri quadrati, trova spazio un nuovo concetto di produzione, la cosiddetta ‘Fabbrica Lenta’. Si tratta di una parte di azienda che potremmo definire “speciale”. Qui, i tessuti sono prodotti con tecniche artigianali, utilizzando dei vecchi telai come quelli giapponesi alti 75 cm, recuperati e rimessi in funzione. Non un vezzo estetico trasformato in museo contemplativo, tutt’altro. Un approccio imprenditoriale visionario che ha guidato i fratelli Bonotto, i quali hanno inserito i vecchi telati in un processo produttivo dove macchine ad alta tecnologia suppliscono ed esaltano la tessitura di quelli antichi. Una sinfonia dalla quale prendono forma tessuti contesi dai marchi di moda più famosi al mondo. Ogni telaio è controllato, alimentato, oliato da un uomo, per una produzione ‘lenta’, ricca di ‘imperfezioni’ uniche e irripetibili. Un nuovo modello manifatturiero che rivaluta la cultura delle mani: la produzione è limitata ma realizzata a regola d’arte. I maestri artigiani tornano a utilizzare le tecniche del dopoguerra dove la mano si vede, e fa la differenza.
Per Giovanni Bonotto, che assieme al fratello Lorenzo guida ora l’azienda, la qualità di un prodotto sta nel tempo che ci si impiega a produrlo. Per questo, nel 2007 decise di sostituire le macchine digitali con telai meccanici degli anni ‘50, dedicando ad ogni telaio un singolo operaio, che in questo modo diventa un maestro artigiano. “Fabbrica Lenta” è un manifesto contro la standardizzazione industriale e la produzione in serie a basso costo, allo scopo di rivalutare un aspetto del DNA manifatturiero italiano, che è l’eccellenza della bottega rinascimentale. Un ulteriore aspetto che fa comprendere maggiormente la filosofia dell’azienda è il legame viscerale di Luigi Bonotto con il mondo dell’arte: questo suo amore è una componente che ha influenzato profondamente, arricchendola, l’intera produzione tessile. Detentrice della più ampia collezione privata di opere d’arte della corrente Fluxus, la famiglia Bonotto ha deciso di esporla permanentemente all’interno della fabbrica stessa, così che i suoi artigiani possano trarne ispirazione. Nel ricostruire la genesi della Fabbrica Lenta, Giovanni Bonotto parla dell’ambiente che respirava in famiglia: “Da piccolo ho vissuto con tantissimi artisti internazionali che venivano a trovare mio padre. Artisti come Marcel Duchamp e Joseph Beuys mi hanno insegnato e dimostrato che l’opera d’arte è diventata la vita e viceversa. È così che loro hanno rotto le barriere e fondato la contemporaneità. Grazie a loro, per me tutto questo è diventato naturale: tra fare impresa, arte e vivere non c’è alcun confine. Quando le cose andavano a gonfie vele per tutti, il nostro approccio all’impresa era poco capito... Alla fine, però, oggi siamo uno dei pochi produttori rimasti in piedi nel tessile. Non solo non abbiamo chiuso, ma ci siamo ingranditi e il merito va alle nostre procedure di business administration, impollinate da un pensiero diverso da quello corrente che esce dalle università più blasonate. Umberto Eco, che ho avuto come professore a Bologna, mi diceva: ‘Chi legge il cartello non mangia il vitello’. E così io ho cercato di sovvertire le regole”. La dimensione artistica nel tempo ha saputo affrancarsi e diventare autonoma, tanto che nel giugno del 2013 è stata costituita la Fondazione Bonotto che ha avuto come madrina d’eccezione Yoko Ono, artista spesso presente a Casa Bonotto. Un dialogo con l’arte che continua anche oggigiorno con il recentissimo progetto Fluxbooks alla Biennale di Venezia, dove due mostre hanno preso spunto dalle opere del gruppo Fluxus per arrivare ai giorni nostri: una di Bonotto e l’altra dei giovani artisti della Fondazione Bevilacqua La Masa. Raccontando il fare di quegli artisti tedeschi di inizio anni Sessanta, che hanno inventato la poesia sperimentale, con libri che dialogavano con la musica. Oggi quei pezzi passati alla storia sono stati ripresi in mano da artisti delle nuove generazioni, che ne hanno dato nuove interpretazioni, proprio come avevano fatto i Bonotto con i telai ottocenteschi. O come quando, negli anni Settanta, “mio padre aveva portato in fabbrica John Cage, il più grande musicista del secolo scorso che ha cambiato la musica del Novecento – continua Bonotto - il quale ha preso i telai e composto una sinfonia straordinaria, con in un crescendo dai ritmi incredibili. Tutte queste esperienze e quell’humus ci hanno permesso di vivere nel 2000 e non nel Novecento. Gli occhiali della fantasia sono obbligatori nel nostro tempo, perché non viviamo una crisi, come si è soliti chiamarla, ma il cambio di un’era in cui nasce letteralmente un nuovo linguaggio, nel senso proprio di lingua e le parole sono a fondamento della nostra cultura. A questo cambiamento non si potrà resistere, resta solo chi cambia”.

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